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L’Alabama contro l’aborto: quando si negano i diritti basilari l’umanità regredisce

È di pochi giorni fa la notizia che Key Ivey, governatrice repubblicana dell’Alabama, ha firmato il provvedimento contro l’aborto anche in caso di stupro e incesto, rendendolo fuori legge in tutto lo Stato. Con l’unica eccezione nel caso di una madre in pericolo di vita, questo provvedimento si propone come il più restrittivo di tutti gli Stati Uniti in merito all’interruzione di gravidanza, arrivando a negare alla donna perfino di poter scegliere l’intervento dopo una violenza sessuale.

La repubblicana ha esultato poi su Twitter manifestando la sua convinzione di come tutto ciò sia una “forte testimonianza” di quanto “ogni vita sia preziosa e che ogni vita sia un sacro dono di Dio”. Ciò che preoccupa, oggi, è che questa legge possa mettere in discussione la sentenza Roe vs Wade che, nel 1973, sancì a firma della Corte Suprema degli Stati Uniti la legalizzazione federale dell’aborto. Questo massimo organo giudiziario può contare ora sulla maggioranza di 5 a 4 di giudici conservatori dopo la nomina di Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh da parte del presidente Trump.

È stata la stessa Ivey a riconoscere come il precedente dell’Alabama potesse essere bloccato per la Roe vs Wade, asserendo però che “arriverà il giorno in cui la Corte Suprema dovrà rivedere questa importante questione". E così tra sei mesi, se tutto procede come programmato, entrerà in vigore questa legge dell’Alabama che prevede fino a 99 anni di carcere per i medici che praticano l’interruzione di gravidanza, riportando il tema dell’aborto al centro delle prossime elezioni presidenziali del 2020.

Naturalmente la notizia ha fin da subito scatenato le proteste della società civile americana, con la senatrice di New York Kirsten Gillibrand (tra i 22 candidati democratici alle primarie per la presidenza) che ha affermato come “questo tentativo dell’Alabama”, e di ulteriori 29 Stati degli Usa, rappresenti “un attacco alla libertà riproduttiva delle donne e ai nostri diritti civili fondamentali”, con l’ex presidente Joe Biden (anch’egli candidato alle primarie democratiche) che, dopo aver manifestato la contrarietà di questa legge con i principi costituzionali sanciti dal precedente legislativo, ha ribadito come “la scelta [debba] restare alla donna e al suo dottore”. Dello stesso parere Hillary Clinton, che denuncia un attacco “alla vita e alla libertà delle donne”, e il senatore democratico del Vermont Bernie Sanders che ha sottolineato come l’interruzione di gravidanza rappresenti un diritto costituzionale inviolabile. Fa riflettere, poi, un commento a caldo della pop star Lady Gaga che denuncia lo sbilanciamento delle pene applicabili ai medici che violano la suddetta legge proprio rispetto a chi invece commette uno stupro[1].

A nulla è servita, quindi, la protesta delle attiviste pro choice che si sono riunite per manifestare davanti al Senato vestite come le protagoniste del romanzo di Margaret Atwood Il Racconto dell’ancella, con l’intenzione di denunciare e attirare l’attenzione circa questo provvedimento votato da 25 senatori (tutti maschi, repubblicani e bianchi) e combattuto, in aula, da soli 6 democratici. Una questione, quella della lesione della libertà di scelta delle donne, alla quale ci stiamo purtroppo abituando vedendola ripetersi non solo negli Stati Uniti ma, trasversalmente, anche in altri contesti dove i diritti delle donne ritornano prepotentemente ad essere minacciati, come ad esempio l’Italia.

Basti considerare che negli States quello dell’Alabama rappresenta soltanto l’ultimo (e il più restrittivo) dei casi in cui uno Stato a maggioranza di destra vota provvedimenti a favore della criminalizzazione dell’aborto. Tutti sappiamo che l’aborto è nella maggior parte dei casi una sconfitta dolorosa per la donna, ma uno Stato deve avere una legislazione a riguardo affinché non ritorni la terribile piaga dell’aborto illegale. Negli USA sono ormai 16 gli Stati che hanno già votato, o che stanno per votare, leggi per impedire l’interruzione di gravidanza già dal momento in cui un medico ha la capacità di percepire il battito cardiaco del feto, e cioè a sei settimane dal concepimento. Un testo in linea con questa visione, ad esempio, è stato firmato in data 14 maggio scorso da Brian Kemp, governatore della Georgia[2].

Anche il parlamento del Missouri ha recentemente approvato una legge che impone a 8 settimane di gravidanza il limite massimo per eseguire un aborto, tempo calcolato come minimo per poter rilevare il battito cardiaco del feto. Questa legge, che verrà quasi sicuramente controfirmata dal governatore Mike Parson, conferma che il divieto vige anche nel caso di stupri o di incesti, e fa di questo Stato il quinto, quest’anno, ad aver abbracciato tale politica (dopo il Kentucky, il Mississippi, l’Ohio e la già citata Georgia)[3].

Se queste leggi rimangono comunque incostituzionali negli USA, perché opposte alla sopracitata sentenza Roe vs Wade della Corte Suprema, l’obiettivo delle amministrazioni sembra essere proprio quello di riportare il tema dell’aborto in discussione alla Corte di Washington, che come già accennato può contare oggi su una maggioranza conservatrice. Ed è per questo motivo che sono già molti gli Stati democratici in cui deputati e senatori stanno cominciando a proporre emendamenti a tutela dell’interruzione di gravidanza, così da blindare questo diritto in caso di un futuro rovesciamento della Corte Suprema.

La situazione dell’Alabama non risulta essere quindi un fulmine a ciel sereno e anzi si inserisce in un percorso più complesso che riguarda anche la supremazia di genere. È interessante leggere un recente articolo di Chiara Lalli in cui si critica l’associazione forzata tra il tema in questione e il diritto di poterne parlare, spesso erroneamente delimitato alle donne. La giornalista, infatti, fa una lettura critica di come la notizia di questa legge è stata affrontata, tra gli altri, anche dal Guardian e da Alyssa Milano quando, alle foto dei senatori conservatori che hanno votato a favore della legge, è stata aggiunta come didascalia “nemmeno un utero”. Questa narrazione tende un po’ a sviare il vero punto della faccenda che riguarda invece la salute, e che quindi andrebbe affrontata con un dibattito scientifico e parlamentare serio. Mi trovo quindi d’accordo nell’affermazione della giornalista che sostiene che “condividere funzioni e caratteristiche anatomiche non implica altro che tautologia”, e che quindi “non si discute usando gli uteri ma gli argomenti[4].

Lo scontro argomentativo quindi dovrà basarsi su altro e cioè sull’attribuzione di inviolabilità del diritto alla vita dell’embrione, equiparato in questo caso a quello della donna. Bisognerebbe ridiscutere il concetto dell’attribuzione di diritti fondamentali del feto.

Vorrei approfondire brevemente su questo punto. Come affermai nel 2012 in un libro pubblicato con il Cardinale Carlo Maria Martini (Credere e conoscere, Einaudi, 2012) la Chiesa definisce l’inizio della vita come il momento della penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo. Altri affermano che sia il risultato di un continuum, ovvero il frutto di una serie successiva di fenomeni. Questo è certamente vero. Il processo deve attraversare varie fasi successive, ma molti ritengono che esista un momento specifico in cui si forma una nuova vita, quello dell’incontro di due cellule, una di origine maschile e l’altra femminile. Quando il patrimonio genetico delle due cellule si fonde, dando origine a qualche cosa di nuovo che prima non esisteva, si ottiene un DNA con caratteristiche proprie, diverso da tutti gli altri ed è solo da questo momento, calcolabile in un arco di tempo che varia tra le dodici e le quarantotto ore dall’incontro sessuale, che molti scienziati ritengono riconoscibile l’esistenza di una vita nuova. Non tutti sono concordi con questa impostazione, esistono infatti anche correnti di pensiero che individuano l’inizio dell’esistenza umana in una fase molto successiva, con il formarsi delle cellule neurali e la capacità di pensare.

Sarebbe molto utile riunire uomini e donne di scienza ma anche religiosi e filosofi per cercare di individuare una definizione comune, un po’ come si fece ad Harvard nel 1968 quando una commissione di specialisti appositamente istituita arrivò alla definizione della morte cerebrale. Quei criteri, che stabilirono il momento preciso in cui riconoscere la fine, vennero utilizzati anche per elaborare le leggi sulle donazioni degli organi in moltissimi Paesi del mondo ed ebbero un impatto fondamentale per il successo della chirurgia dei trapianti e, di conseguenza, servirono a salvare moltissime vite. Un percorso simile, sull’inizio della vita, potrebbe aiutare tutti. 

Nel 1978 l’Italia si è dotata di una legge sull’aborto equilibrata ma, purtroppo, spesso non perfettamente applicata sia per la carente assistenza alla donna che vorrebbe condurre a termine la gravidanza, sia nel caso in cui, discutendone con i propri medici, decida di interromperla. Nel nostro Paese una Regione spicca fra tutte per questa anomalia: il Molise, dove a oggi il 96% dei ginecologi sono obiettori di coscienza.

Mentre per gli Stati Uniti si è ricorso a nuove proposte di legge per limitare questa pratica e renderla, di fatto, quasi impossibile, in Italia si ha l’impressione che tale diritto sancito per legge trovi sempre maggiori ostacoli e difficoltà nella sua applicazione. Se guardiamo ai suoi dati di attuazione presenti all’interno della Relazione del Ministro della Salute sulla Attuazione della Legge contenente Norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza[5], infatti, ci troviamo subito di fronte a numeri allarmanti. Tra questi, quelli del Molise possono essere considerati quasi illegali, considerando che l’unica struttura in cui le donne possono ricevere questo tipo di assistenza è il Cardarelli di Campobasso, dove lavora l’unico ginecologo non obiettore dell’intera Regione.  Come è possibile parlare di una sanità garantita se soltanto l’1% del personale medico si fa carico dell’assistenza della maternità e dell’interruzione volontaria di gravidanza?

Dovremmo quindi ripartire da questi dati, che riguardano in primo luogo i nostri territori e di conseguenza le nostre storie, per riconsiderare come oggi, nel 2019, non è soltanto la negazione di una legge a dover allarmare e preoccupare chi si erge a difendere i diritti di tutti, ma è anche un immenso substrato culturale e professionale che fa di tutto perché questo diritto si mantenga soltanto sulla carta.