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La medicina narrativa, un nuovo orizzonte del rapporto medico-paziente

Come ho scritto sui miei social networks poco tempo fa, alla Thomas Jefferson University riteniamo imprescindibili le attività umanistiche all’interno del percorso formativo degli studenti in Medicina. Per questo attraverso Jefferson Humanities & Health proponiamo una serie di progetti durante il corso di laurea. Tra questi spicca un workshop di medicina narrativa virtuale volto a promuovere l’empatia, il team building e un approccio olistico ai percorsi di cura[1].

Il termine Narrative Medicine (NBM) si riferisce ad una metodologia clinico-assistenziale che poggia sulla capacità comunicativa, un aspetto della cura che ha sempre fatto parte della Medicina ma che oggi, a causa della tecnologia, si rischia di perdere. Tale metodologia, infatti, presuppone la narrazione come strumento essenziale all’acquisizione, alla comprensione e alla sincronizzazione di differenti punti di vista circa il manifestarsi di sintomi o l’approcciarsi alle rispettive cure, il tutto con l’obiettivo unico di realizzare una “storia di cura”, una costruzione condivisa del percorso che accompagnerà il paziente alla guarigione[2].

Il nucleo di questo metodo è dunque il processo narrativo, dove per narrazione, stando alla definizione di Barbara Herrnstein Smith, intendiamo semplicemente il “discorso in cui qualcuno dice a qualcun altro che qualcosa è accaduto”. Il racconto della malattia diventa in questo senso centrale: un concetto apparentemente semplice ma assai più rilevante della raccolta di dati impersonali nella cartella clinica[3].

Questa metodologia non prescinde da quella che viene definita Evidence-Based Medicine (EBM), ma viene utilizzata a livello complementare al fine di perseguire l’estrema completezza, personalizzazione ed efficacia delle decisioni clinico-assistenziali. Quello che si ricerca, quindi, è la “partecipazione attiva dei soggetti coinvolti nelle scelte. Le persone, attraverso le loro storie, diventano protagoniste del processo di cura”, come è stato affermato durante la Conferenza di consenso Linee di indirizzo per l’utilizzo della Medicina Narrativa in ambito clinico assistenziale per le malattie rare e cronico-degenerative, svoltasi dall’11 al 13 luglio del 2014 durante il Second International Congress Narrative Medicine And Rare Diseases[4].

Tutto questo è orientato verso l’unico obiettivo importante dal punto di vista clinico-assistenziale: comprendere il paziente, la sua malattia e facilitare la relazione umana tra la persona ammalata e il suo medico curante[5].

Riprendendo la definizione della direttora del programma di Medicina Narrativa alla Columbia University, Rita Charon, possiamo, in sintesi, utilizzare questa dizione: “riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l'efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessione, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi”.

Ed è in gran parte grazie al lavoro di Rita Charon e di un’altra studiosa, Rachel Naomi Remen, che a partire dalla fine degli anni Novanta abbiamo una definizione scientifica di questa area della medicina. Le due esperte, infatti, sono state tra le prime a definire i contorni di questa tecnica e a utilizzarla per migliorare la cura del paziente. In un’epoca in cui medici e infermieri si affidano sempre di più all’aiuto di sofisticate attrezzature, le due ricercatrici si sono attivate per sollecitare l’adozione di un approccio d’insieme nei confronti del paziente con un maggiore coinvolgimento umano del medico nel percorso di cura. L’empatia che ne scaturisce, come dimostrarono, avrebbe favorito l’ottimizzazione della cura offrendo “all’operatore una metodica per la rilevazione del vissuto soggettivo di malattia”.

Studiando la sua genesi scopriamo che tale modello era stato precedentemente sviluppato presso la Harvard Medical School da Byron J. Good, che ne aveva previsto anche un approfondimento qualitativo basato sulla raccolta dei dati sentimentali del paziente stesso. Annotando, ad esempio, gli stati di tristezza, solitudine, dolore o sconforto, oppure registrando le reazioni che egli provava nei confronti del suo vissuto nell’ambiente di cura. Questo a conferma del fatto che la descrizione dei sintomi va oltre la valutazione della qualità delle cure ma si estende a tutta l’esperienza del paziente nel suo complesso.

Per un medico tendere l’orecchio al racconto del paziente e invogliarlo ad estenderlo anche alle vicende e al contesto in cui esso si pronuncia diventa una pratica fondamentale per ricostruire in modo critico una serie di particolari solitamente messi in secondo piano. Come afferma la stessa Società Italiana di Medicina Narrativa (SIMeN) solo in questo modo “il soggetto e la sua famiglia entrano a pieno titolo come protagonisti e co-autori del percorso di cura[6].

La malattia raccontata dal paziente è [quindi] illness e sickness, non solo disease[7].

In Italia l’ospedale Fatebenefratelli della Provincia Lombardo Veneta utilizza da tempo la NMB come un cardine organizzativo della pratica medica, arrivando addirittura a spiegare (sulla pagina web dell’ospedale) come attraverso questa metodologia “la persona condivide sentimenti, emozioni, paure e preoccupazioni con altri individui, ripercorrendo l’immaginario vissuto e condividendo una personale fase della sua vita”, e che tale approccio “allevia la sofferenza e permette alle persone malate di creare una connessione con altre persone che hanno vissuto la stessa esperienza o che vogliono co-partecipare e dare conforto al paziente”.

Lo scopo è quello di umanizzare l’assistenza e la cura integrale della persona[8].

Un’altra iniziativa degna di nota è stata intrapresa dalla stessa SIMeN, che durante l’emergenza sanitaria dovuta all’epidemia di COVID-19 ha lanciato il progetto R-Esistere, un portale aperto ai contributi di tutti coloro i quali hanno sentito il bisogno di raccontare l’esperienza vissuta sulla propria pelle. Uno spazio di ascolto rivolto ai pazienti, ai familiari e a tutti gli operatori sanitari che nell’arco di questi mesi hanno contrastato, quotidianamente, l’aggressività di un nuovo terribile virus.
In questi ultimi mesi ci è mancato l’ossigeno, a ognuno in maniera diversa: siamo testimoni involontari di un tempo sospeso, ci siamo sentiti lontani dal nostro passato, non abbiamo più visto il futuro” ha dichiarato la Presidente della società Stefania Polvani, aggiungendo poi come si sia sentito il bisogno di “confrontarci direttamente con le nostre emozioni ed è in questi momenti, tra paura e coraggio, eroismo e isolamento, che il progetto R-Esistere vuole provare a dar voce ai sentimenti contrastanti di disperazione e speranza che ci hanno accompagnato in questo momento di distanza sociale durante questa pandemia, e che continueremo probabilmente a vivere[9].

Il progetto è nato, dunque, per aiutare anche gli operatori sanitari, “offrendo percorsi inaspettati su mondi che sembravano irraggiungibili o lontanissimi”, per citare le parole di Ubaldo Sagripanti, psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale San Claudio di Corridonia (MC)[10].

In conclusione, è fondamentale riportare all’interno della cura valori essenziali come il dialogo, l’ascolto e quell’empatia necessaria affinché la persona ammalata percepisca che chi lo sta curando non solo è competente ma rimarrà umanamente accanto sino a quando il pericolo non sarà passato. Questa è la vera essenza del mestiere del medico.

Ignazio Marino


[4] Vedi nota 2

[7] vedi nota 3