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La ricerca in Italia: obbligatorio fare di più per il futuro del nostro Paese

Questo articolo parte dalla riflessione intorno allo stato attuale della ricerca nel nostro Paese, che mi duole vedere tra gli ultimi posti della specifica classifica redatta dall’Anvur (Agenzia Nazionale di Valutazione) sugli Stati che dedicano più fondi in percentuale sul prodotto interno lordo. L’Italia si trova infatti al 27° posto dei Paesi dell’OCSE, ancora lontanissima dalla stima del 3% prefigurata dagli obiettivi europei del 2020 e ad anni luce dalle medie di Israele (4,3%), Corea del Sud (4,2%) e Svizzera (3,4%), i tre Paesi che invece occupano il podio di questa particolare classifica.

Ad aumentare la preoccupazione nei confronti di questi dati subentra la statistica riguardante il numero di ricercatori per mille occupati che vede il Paese scivolare addirittura al 34° posto, e quello sulla parità di genere e i docenti universitari under 40 che ci spingono addirittura in coda alla lista dei Paesi dell’OCSE.

Tra i principali rischi di questa situazione, oltre alla mancanza di attrattività per i fondi destinati alla ricerca, c’è anche il cedere il passo nell’innovazione, ruolo che al momento ci vede 19° in tutti i 28 Paesi dell’Unione Europea. Inoltre ricopriamo soltanto l’11° posto tra quelli che hanno presentato più richieste di brevetti, dal momento che, come si legge nel rapporto del centro di ricerca Observa Science in Society a firma del presidente Giuseppe Pellegrini, “brevettiamo poco perché richiede uno sforzo industriale, economico e tecnologico impegnativo per noi, il Paese delle piccole e medie imprese[1].

Per quanto riguarda i brevetti si registra un picco sull’ingegneria informatica, che da sola come settore raccoglie il 42% di tutte le domande, e un eccellente rating delle innovazioni di stampo non tecnologico (quali progettazione o modelli ornamentali), per le quali l’Italia è seconda soltanto alla Germania. In generale si conferma un’alta specializzazione per i settori inerenti la conoscenza o tutto ciò che riguarda il Made in Italy, ma di fatto purtroppo ci si allontana dalla ricerca scientifica e tecnologica[2].

Non si tratta quindi di una pecca esclusivamente statale, ma se rimaniamo impantanati al misero 1,3% del Pil investito in ricerca la responsabilità è anche delle imprese. Come continua lo stesso Pellegrini, infatti, in questo caso si tratta di “investimenti rischiosi perché a lungo termine e dai risultati imprevedibili. E da noi gli imprenditori rischiano meno che all’estero”. Oltretutto “c’è la tendenza a dare soldi a pioggia, ma disperdere energie è sbagliato, meglio investire sulle eccellenze. Stesso discorso per le università: 90 in un Paese di 60 milioni di abitanti, troppe perché siano tutte competitive[3].

Entrando nello specifico è utile analizzare il Libro bianco sulla ricerca stilato dal Gruppo 2003 e pubblicato dall’agenzia Zadig lo scorso marzo a Roma all’Accademia dei Lincei: è sconfortante qui leggere come in dieci anni la spesa pubblica per la ricerca abbia subito un taglio addirittura del 21%, al quale per il periodo dal 2008 al 2014 si è affiancato quello del 14% delle università statali. Il tutto, ahimè, per un importo di circa 2 miliardi di euro.

Come ha già sapientemente riportato il Prof. Giuseppe Remuzzi, infatti, in Gran Bretagna è stato osservato come ogni pound finanziato pubblicamente per la ricerca fa tornare indietro addirittura 30 pence all’anno di guadagno, e tutto questo senza limiti. Lo stesso investimento è stato fatto in Germania per quanto riguarda la ricerca biomedica, forse per replicare quanto osservato negli Stati Uniti dove per il progetto sul genoma umano, ad un investimento di 3,8 miliardi di dollari è corrisposto, dopo 13 anni, un rientro economico di ben 800 miliardi (contribuendo alla creazione di ben 3,8 milioni di posti di lavoro)[4].

Occorre una strategia complessiva che passi dal nuovo Piano Nazionale della Ricerca”, ha quindi esortato Giuseppe Valditara, il capo del Dipartimento per la Formazione superiore e la Ricerca presso il ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca, confermando quando già precedentemente analizzato dal rapporto del Gruppo 2003 che additavano al calo delle iscrizioni, dovute dal connubio tra la crisi del 2008 e il taglio dei fondi pubblici (-20,4% se andiamo a vedere i bienni 2003-2004 e 20014-2015), la brusca frenata in produzione scientifica. “All’estero c'è più attenzione e la partecipazione dei ricercatori è incentivata. Per questo, in 10 anni c'è stata un'emigrazione di circa 11mila giovani studiosi. Una fuga di competenze che impoverisce l'Italia”, si legge dallo stesso report, spiegandoci quindi che anche la conformazione imprenditoriale del nostro Paese, costituito in gran parte da PMI, non giova al reperimento di fondi per la ricerca e l’innovazione[5].

Siamo ancora lontani dai Paesi nostri concorrenti diretti, come Francia e Germania”, rivela Daniele Archibugi, curatore assieme a Fabrizio Tuzi della Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia, redatta dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) per Governo e Parlamento, aggiungendo come debba destare seria preoccupazione lo stop alla crescita del personale di ricerca e il crollo vertiginoso dei dottori, “che sono la vera semina per il futuro [6].

In tutto ciò è importante lodare e concentrarsi su quelle iniziative che tentano un’inversione di rotta e non cedono al disfattismo di chi pensa che questa situazione sia irrisolvibile, ed è per questo che mi è saltata agli occhi la notizia della nascita del Distretto dell’economia della scienza per una smart city sostenibile, nella periferia a sud-est di Roma in prossimità dei Castelli capitolini, “una rete di centri di ricerca per una città intelligente che utilizzi la scienza come volano per il progresso sociale ed economico dei territori periferici disagiati”.

Ad annunciarlo ha provveduto direttamente Lorenzo Fioramonti, il viceministro per l’Istruzione, Università e Ricerca (Miur), che ad inizio di luglio ha presentato il progetto alla presenza dell’assessore allo sviluppo economico della Regione Lazio Gian Paolo Manzella e dei maggiori rappresentanti degli enti di ricerca della zona. Come ha spiegato Fioramonti, si tratta di un progetto di lungo corso che ha come obiettivo quello di “portare ricadute sul territorio, soprattutto su tre fronti: trasferimento tecnologico, turismo scientifico e indotto legato all’attività scientifica”, facendosi carico della promozione di interventi quali l’implementazione di infrastrutture digitali, sviluppi di mobilità sostenibile e strategie di promozione del turismo congressuale.

L’intento sembra chiaro ed estremamente condivisibile, e riguarda il riportare in auge quel fervore scientifico e specialistico che ci ha contraddistinto per molti decenni della storia del nostro Paese, il tutto favorendo dinamiche territoriali che si spera volgano all’accrescimento valoriale di aree e individui.

È paradossale, infatti che un territorio come quello che racchiude il VI Municipio e parte del VII, dove si concentra la maggioranza degli enti pubblici di ricerca d’Italia, oltre a poli di eccellenza come l’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) e il campus di Tor Vergata, il più grande d'Europa, conviva col più alto tasso di dispersione scolastica e il minore numero di laureati della provincia di Roma. Oltre a una serie di indicatori socioeconomici che individuano il territorio come ad alto rischio di degrado”, ha dichiarato infatti Fioramonti, concludendo con l’augurio che questo progetto possa essere preso come modello e replicato, quindi, in altre zone del Paese[7].

Ignazio Marino

[3] Vedi nota 1

[4] G. Remuzzi, La salute (non) è in vendita, Gius. Laterza & Figli, 2018, Bari

[6] Vedi nota 2