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Vincent Lambert, la morte riapre il dibattito sul fine vita

Lo scorso 11 luglio mi è giunta la notizia della morte di Vincent Lambert, un paziente 43enne rimasto tetraplegico e in stato vegetativo dopo un terribile incidente stradale avvenuto ormai più di 11 anni fa, e diventato per questo motivo il protagonista inconsapevole del ritorno del dibattito pubblico, in Francia e nel mondo, circa il grande tema del fine vita.

Dal 2 luglio, infatti, il capo del reparto di cure palliative dell’Ospedale universitario di Reims Vincent Sanchez aveva inviato una mail ai familiari annunciando la “cessazione dei trattamenti e la sedazione profonda e continua”, rispettando dunque l’esito della Corte di Cassazione che aveva annullato la decisione dello scorso maggio della Corte d’appello di Parigi volta a riprendere l’idratazione e l’alimentazione di Lambert, in una condizione che legalmente viene definita ostinazione irragionevole. Un’azione che ha subito causato la reazione del procuratore di Reims Matthieu Bourrette che ha infatti chiesto l’apertura di un’indagine sulla causa del decesso disponendo un’autopsia e affidando le indagini alla sezione regionale della polizia giudiziaria.
Il caso ha coinvolto i Tribunali da diversi anni (ben 34 ricorsi dal 2013) ricoprendo le cronache nazionali con il dibattito tra Rachel, la moglie del paziente che riteneva si dovesse interrompere l’assistenza forzata del marito affermando che egli non l’avrebbe mai accettata, e i genitori di Lambert, ferventi cattolici e contrari ad ogni interruzione delle terapie che potessero sostenere la vita di una persona in stato vegetativo.
La moglie dell'uomo […] così come sei dei suoi fratelli e sorelle nonchè il nipote Francois, hanno protestato per anni contro quella che definivano una inesorabilità terapeutica chiedendo che gli venisse concesso il diritto di morire”, ma questo non ha impedito a più di 300 persone di radunarsi lo scorso 10 luglio davanti alla Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi per pregare per la sua vita, esortati dalla Pontificia Accademia per la Vita e dal suo Presidente Mons. Vincenzo Paglia che, alla fine, hanno riportato via Twitter come “la morte di Vincent Lambert e la sua storia [fossero] una sconfitta per la nostra umanità[1] (Mons. Paglia è lo stesso prelato che, nel 2015, in una conversazione telefonica con un attore, che Mons. Paglia credette essere il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, affermò di avere ascoltato dei dialoghi privati in cui Papa Francesco avrebbe pronunciato parole discreditanti su di me. Il Vaticano affermò che tale indiscrezione non corrispondeva alla realtà).
Come mi è già capitato di scrivere nel testo Credere e Conoscere redatto a quattro mani assieme al Cardinal Martini, però, il mio dubbio, condiviso da molti, è che impiegando in maniera esagerata e sproporzionata l’innovazione tecnologica e l’evoluzione delle terapie mediche oggi in nostro possesso non si arrivi a nessun esito se non quello di prolungare l’agonia di una persona. “Non si tratta di cercare una cura, anche residuale, ma solo di rimandare la fine della vita, comunque inevitabile” scrivevo allora, e sottoscrivo anche in questo momento[2]. Il mio è un pensiero semplice: se una persona indica che desidera ricevere tutte le terapie che esistono oggi e anche quelle che esisteranno domani deve avere la certezza che questa sua indicazione venga rispettata. D’altra parte se un’altra persona scrive che in caso, ad esempio, di stato vegetativo vorrebbe la sospensione di ogni trattamento e spegnersi naturalmente, anche questa persona deve aver la certezza del rispetto della propria volontà.
Come non abbracciare quindi le parole della co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni Mina Welby all’AdnKronos, che ha esortato tutti quanti a riflettere su “quanto sia utile ed importante avere un documento scritto, un testamento biologico o delle disposizioni anticipate di trattamento, dove un cittadino può scrivere come essere curato, scegliere di non essere curato o esprimere la volontà di rimanere in stato vegetativo[3].
E’ semplicemente coscienzioso ammettere che in alcune situazioni di inevitabile e definitivo regresso fisico “si può in coscienza rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita”, per riprendere le frasi pronunciate da Giovanni Paolo II nel suo Evangelium Vitae. Lo stesso Pontefice, poi, chiudeva affermando come l’obbligo di farsi curare dovesse obbligatoriamente misurarsi con le situazioni concrete, “valutare cioè se i mezzi terapeutici a disposizioni siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte[4].
Una soluzione, come ho già più volte affermato, la si trova nel testamento biologico, che delega al diretto interessato la scelta su quali cure e terapie affrontare riconoscendo allo stesso tempo il diritto di richiedere ai medici uno stop al loro sostegno farmacologico o tecnologico. Questi ultimi, a loro volta, verrebbero tutelati legalmente e protetti da potenziali accuse di omicidio del consenziente o di favoreggiamento al suicidio[5].
"Le persone lo devono lasciare scritto”, ha dichiarato in conclusione dell’intervista sul caso Lambert Mina Welby, “in questo modo non succederanno più queste diatribe con la giustizia e le discussioni tra parenti. Tutto questo protegge la persona e la famiglia, è la cosa giusta da fare. È questo ciò che possiamo imparare dalla vicenda”[6].

Ignazio Marino

[2] C. M. Martini, I. R. Marino, Credere e Conoscere, Einaudi editore, 2012

[3] Vedi nota 1

[4] Evangelium Vitae, 25 marzo 1995, in C. M. Martini, I. R. Marino, Credere e Conoscere, Einaudi editore, 2012

[5] Vedi nota 2

[6] Vedi nota 1