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L’emergenza CoVid-19 e l’impiego di forze fresche

È di qualche giorno fa, in piena emergenza CoVid-19, la dichiarazione dell’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera che consigliava agli over 65 anni di rimanere a casa in quanto individui più a rischio. Neanche un giorno dopo, lo stesso annunciava la volontà di richiamare in servizio medici e infermieri in pensione a causa della mancanza di personale sufficiente.

A tali parole si contrapponevano quelle di Carlo Palermo, segretario di Anaao Assomed, sindacato dei medici, che evidenziava come “sarebbe meglio assorbire forze fresche per il Sistema Sanitario Nazionale, già carente e stressato di per sè e ancor di più messo a dura prova dall’epidemia da Coronavirus”, per renderci conto di essere davanti a un enorme problema nazionale che la recente emergenza sanitaria ha solo riportato all’attenzione di tutti[1].

Io stesso ne avevo scritto tempo fa, su questo stesso blog, di come potessimo pensare “che l’utilizzo di camici bianchi militari o già pensionati possano risolvere una crisi che è sistemica”, ma la mia era stata solo una voce tra tante. Tante voci inascoltate da anni: istituzioni e governi non hanno fatto nulla per invertire la rotta[2].

A queste riflessioni ne andavano aggiunte due: il 10% degli individui risultati positivi al virus è proprio composto dal personale medico: medici, tecnici e infermieri che da quando è iniziata l’emergenza hanno esteso i loro turni per poter fronteggiare la maggior parte delle esigenze nazionali. Come commentare il fatto che quattromila laureandi lo scorso 28 febbraio avrebbero dovuto sostenere l’esame di Stato per l’abilitazione all’esercizio e, invece, sono rimasti in “panchina”. Chiedete a qualunque medico se l’esame di stato ha aggiunto qualcosa alla sua preparazione. Tutti vi risponderanno che non ha aggiunto nulla. Parliamo di quattromila giovani medici che, a tirocinio già terminato, si trovavano in attesa che il Ministero comunicasse loro una data possibile per effettuare il test a crocette per l’ingresso all’albo. Giovani come F.M. di 24 anni, neolaureato in medicina e chirurgia a ottobre scorso, che giudicava questa situazione (paradossalmente causata dallo stesso virus) offensiva e umiliante. “Siamo in tanti e saremmo pronti a dare una mano. Invece ci lasciano qui nel limbo e richiamano i pensionati. Poi si domandano perché i giovani se ne vanno all’estero”, come dichiarava in una recente intervista a L’Espresso.

Sarebbe così laborioso per il Parlamento votare in un giorno una legge di un singolo articolo che dica: “Al fine di fronteggiare l’emergenza sanitaria in atto a tutti i laureati è consentita l’iscrizione all’Albo senza dover sostenere l’esame di stato”? Questa la domanda che mi ponevo continuamente.

In una situazione come quella attuale tenere queste risorse bloccate rappresentava un’assurdità. “Tenerci fermi è un paradosso, io sono di Milano e tanti miei colleghi lombardi, veneti, emiliani, siamo medici e sappiamo di avere le competenze per poter dare un contributo importante in questa emergenza. Invece c’è solo la frustrazione di non poter far nulla”, continua lo stesso F.M. nella stessa intervista.

Una situazione che si faceva sempre più frustrante, per loro e per chi ha realmente bisogno del contributo che potrebbero immediatamente dare, aggravata oltretutto dalla quantità di medici e ricercatori che hanno già salutato questo Paese in cerca del meritato riconoscimento estero.

Come ad esempio la dottoressa in immunologia L. S. dell’Istituto Pasteur che, intervistata, ha confermato come sia “straziante assistere a questa emergenza e sapere che il nostro contributo, la nostra presenza sul campo, lì negli ospedali, avrebbe contribuito a combattere questo virus con più forza”. Ancora più interessante è ciò che aggiunge, denunciando come non si comprendano “le reali motivazioni di questo allontanamento, nonostante il fenomeno dell’espatrio dei neolaureati, scienziati e medici sia sotto gli occhi di tutti. C’è chi pensa di poterci richiamare con uno sgravio fiscale, ma non è una questione di soldi”.

Durante l’incontro Italiani all’estero: intelligenze senza confini sono stati diffusi dati davvero allarmanti. Ogni anno il 15% dei nuovi medici specialisti espatria, per un totale di oltre 10.000 risorse emigrate nell’ultimo decennio. Tra le mete preferite in grado di riconoscere il giusto merito e compenso a queste figure vi sono sicuramente la Svizzera e il Regno Unito. Parliamo di professionisti per ognuno dei quali l’Italia ha speso circa 500.000 Euro per formarli (dalle elementari alla specializzazione sono almeno ventiquattro anni di studio). E cosa fa l’Italia dopo aver investito così tanto in capitale umano? Crea le condizioni di impiego peggiori e li spinge a scegliere di lavorare in altri Paesi che non hanno investito un Euro nella loro formazione.

E qual è la situazione italiana nel frattempo? “Una voragine di 56mila medici che mancano all’appello” che si vuole colmare “puntando sui pensionati e richiamando specialisti da Paesi dove le condizioni di lavoro sono più arretrate delle nostre, come l’Est Europa o il Pakistan”.

È questo il giudizio severo rilasciato alla più prestigiosa rivista europea di medicina, The Lancet, dall’anestesista L.L.C.; un giudizio che condividevo in pieno. Il giovane laureato in medicina al San Raffaele di Milano, e poi specializzato in Anestesia e Rianimazione all’Università di Parma, lavora oggi alla Duke University del North Carolina e dichiara di riconoscersi nei principi del Servizio Sanitario Nazionale italiano ma che esso “è diventato anacronistico e va svecchiato, riformato[3]. Non parliamo della semplice (seppur fondamentale) questione salariale, ma di una più generale mancanza di valorizzazione del capitale umano, in termini di riconoscimenti e potere contrattuale.

Possiamo infatti essere orgogliosi ma non certo felici di fronte alle diverse fotografie, diventate ormai virali, che ritraggono il personale medico, dottori e infermieri, stremati nei reparti da turni interminabili per assistere il numero crescente di pazienti colpiti dal Coronavirus.

Ciao dall'inferno. Qui è veramente pesante e dura. Siamo allo stremo ma resistiamo. Vi chiedo un favore per noi e soprattutto per gli infermieri che sono oltre l'eroismo. Aiutateci stando a casa, non siamo quasi più in grado di assistere oltre” è stato uno dei messaggi pervenuti da un medico del Sacco di Milano. Lo stesso medico proseguiva spiegando come i bisognosi di soccorso aumenteranno “ancora ma noi siamo sempre gli stessi. Convincete amici e conoscenti a resistere 15-20 giorni rispettando le regole. Altrimenti sarà un bagno di sangue”.

Ed è stato lo stesso direttore del Sacco Emanuele Catena ad aggiungere che “gli infermieri hanno turni di otto ore, i medici di 12-14 ore, e dopo il turno escono stremati, perché passano gran parte tempo sotto le tute protettive, con un lavoro duro su pazienti molto complessi, pericolosi, delicati, che richiedono anche variazioni di postura per poter essere curati al meglio[4].

Insomma, una situazione che evidenziava come una gestione più lungimirante delle nostre risorse umane avrebbe potuto aiutare adesso e in futuro.

Fortunatamente sembra che questa esigenza sia definitivamente emersa anche per i vertici di Palazzo Chigi, dove con l’ultimo Decreto finalmente lo strumento dell’esame di Stato in medicina è stato abolito così da far diventare la laurea abilitante a tutti gli effetti.

Dopo le decise pressioni che il Ministero dell’Università e Ricerca ha esercitato sull’esecutivo, infatti, questa misura è stata definitivamente inserita all’interno dell’ultimo Decreto legislativo per fronteggiare l’emergenza da CoVid-19. Nero su bianco, quindi, si dice che “per gli studenti che alla data di entrata in vigore del presente decreto risultino già iscritti al predetto Corso di laurea magistrale, resta ferma la facoltà di concludere gli studi, secondo l’ordinamento didattico previgente, con il conseguimento del solo titolo accademico[5].

E così, dopo tanto tempo, pare che finalmente sia stato riscritto il percorso finale della formazione dei giovani medici e chirurghi che non dovranno più, al termine della sessione di laurea e del tirocinio valutativo di quattro settimane sostenere la formalità della parte teorica dell’Esame di Stato (il sopracitato test d’abilitazione). Una misura che era già in parte stata proposta dall’ex Ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli all’interno del Decreto Calabria che ora, visto il contesto, prende definitivamente piede.

Sembra una piccola modifica, ma non lo è. Prendiamo il caso dei circa 4 mila giovani laureati che attendevano questa seconda sessione del 2019, che era prevista per il 28 febbraio, e che di fatto hanno atteso 8 mesi senza, nel frattempo, poter esercitare. Grazie a questo Decreto, quindi, sono divenuti una preziosa risorsa per l’Italia.

Un deciso passo in avanti, tanto che d’ora in poi l’abilitazione verrà raggiunta soltanto con il titolo accademico e il superamento del tirocinio. Come si legge nella relazione illustrata, infatti, “la proposta è finalizzata a superare, a regime, il meccanismo dell’abilitazione all’esercizio professionale per i laureati in medicina e chirurgia attraverso l’esame di Stato[6].

Che altro dire? Sono contento che si sia raggiunto questo importante. Mi dispiace, ovviamente, che quella che sembrava a tutti gli effetti una decisione logica e di buon senso sia stata attuata soltanto in occasione di una delle più grandi emergenze nazionali e internazionali che abbiamo mai avuto il compito di affrontare. Questo non deve rappresentare un punto di arrivo ma soltanto un primo passo per far sì che le nostre risorse rimangano ad esercitare in Italia con il giusto riconoscimento, umano, economico e professionale.

Ignazio Marino


[3] Vedi nota 1

[6] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/16/coronavirus-col-decretone-si-sblocca-labilitazione-dei-medici-e-anche-dopo-lemergenza-lesame-di-stato-restera-abolito/5738011/