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L’empatia? Il nuovo requisito di ammissione alle Facoltà di Medicina

È ormai assodato che tra le caratteristiche che devono contraddistinguere chi decide di intraprendere la professione medica un ruolo centrale lo debba ricoprire l’empatia. La presenza di personale sanitario empatico influenza positivamente il decorso e l’esito della malattia e, infatti, in alcuni percorsi formativi, come ad esempio quello infermieristico, esiste una forte componente didattica basata sulle capacità umane e relazionali.

Ne scrivo perché qualche giorno fa lo stesso Presidente della Thomas Jefferson University, dove insegno ed esercito, si è dichiarato a favore di un nuovo possibile criterio di selezione degli studenti di medicina basato sull’empatia. D’altronde è proprio dal puntuale lavoro della nostra Università che è nata la Jefferson Scale of Phisician Empathy (JSE), dalla quale sono poi scaturiti numerose ricerche tra le quali l’ultima del Center for Research Medical Education and Health Care volta ad esaminare l’empatia nelle professioni sanitarie.

La sopracitata scala di valutazione ha rilevato che sono le donne a dimostrare maggiore empatia nel trattamento dei pazienti (dato confermato anche dalla Balanced Emotional Empaty Scale – BEES). Inoltre, la scoperta dei neuroni a specchio da parte del neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti ha dimostrato che questa caratteristica risiede nel nostro corredo genetico. Ciò non toglie che la stessa può essere anche insegnata e valorizzata, fatto che mi auguro avvenga in futuro nel maggior numero possibile di Facoltà di Medicina e Chirurgia, in ogni parte del mondo.
Già nel 2012 l’Università degli studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro ha sottoposto i suoi studenti di Infermieristica alla BEES, attraverso il feedback a 30 affermazioni per individuare chi ha maggiore empatia nei confronti dei vissuti emozionali altrui. “La sua peculiarità, rispetto ad altri strumenti che rilevano il fenomeno empatico, è quella di essere in grado di analizzare e misurare in modo specifico la condivisione affettiva e di considerare situazioni caratterizzate oltre che da emozioni negative anche da emozioni positive”.

Da un altro studio, condotto dalla University of Central Lancashire di Preston, si è poi notato che a seconda delle facoltà universitarie esiste un differente grado di empatia. Infermieristica e Farmacia, ad esempio, registrano in media risultati più alti rispetto a Giurisprudenza. Ma mentre per Farmacia il livello aumentava con il progredire degli anni scolastici, per quanto riguarda Infermieristica il trend risultava essere inverso[1].

Ancora più significativo è un recente studio della Fondazione Giancarlo Quarta Onlus condotto in collaborazione con l’Università di Udine e con la Clinica psichiatrica Asuiud Santa Maria della Misericordia. La Functional Imaging of Reinforcement Effects (Fiore) è stata presentata lo scorso anno a Milano ed è riuscita a mettere in relazione diversi stili comunicativi di un comunicatore con le rispettive aree cerebrali della sfera di apprendimento del relativo ascoltatore, arrivando a dichiarare che “questa evidenza esperienziale, indagata dalla psicologia comportamentale, ha una sostanza neuroscientifica".

La stessa Fondazione è stata capace di sviluppare un modello relazionale chiamato Ippocrates che si basa su 5 punti corrispondenti a 5 aree di bisogno del malato, che a loro volta vengono associate a precisi stili comunicativi indicati nel trattamento. Grazie a questo modello si è scoperto che un iniziale “bisogno di comprensione” da parte del paziente richiede spiegazioni razionali del medico. Successivamente, il paziente ha “bisogno di rassicurazioni”. È, quindi, necessario “uno stile comunicativo improntato sulla continuità”. Il “bisogno di rassicurazione” richiede una condivisione di emozioni e una manifestazione di disponibilità da parte del medico che aiutino la persona ammalata nell’accettazione della diagnosi. Si passa quindi al “bisogno di attenzione”, che richiede una “valorizzazione delle specifiche istanze del paziente”, per arrivare, infine, alla decisione terapeutica vera e propria, che necessita da parte del medico di una capacità di dialogo che sappia comprendere suggerimenti, indicazioni, proposte e soluzioni.

Tornando alla ricerca Fiore, invece, tali modalità argomentative sono state analizzate con la  Risonanza Magnetica Funzionale (neuroimaging) e correlate a specifiche attivazioni cerebrali. Si è così scoperto che “comportamenti di valorizzazione attivano la sfera sensoriale e in particolare la corteccia visiva", mentre "comportamenti di influenzamento stimolano le regioni del cervello collegate alla teoria della mente che, tra le altre cose, si traduce nell'acquisizione di comportamenti da parte della persona". Ne consegue che un medico in grado di comunicare bene, orientando il paziente nelle decisioni, favorisce la reiterazione del suo comportamento virtuoso e riduce significativamente degenza e malattia.

Fabio Sambataro, Professore di Psichiatria dell’Università degli Studi di Udine, ha aggiunto che “servirebbe invece una prova pratica di empatia", in quanto i corsi di psicologia clinica si risolvono in una mera presentazione di slides e non sono assolutamente sufficienti alla formazione del giovane medico. "Tra gli anni '50 e '70 c'è stata una rivoluzione della medicina che ci ha permesso di diventare sempre più tecnici e molto meno orientati verso il paziente, con un processo che si chiama 'de-umanizzazione'. Qualcuno pensa che il distacco sia d'aiuto al malato. In realtà, se è vero che il 'sentire' la stessa cosa che sente il paziente non è utile, il 'capire' quello che sente è fondamentale", ha poi concluso. È sempre il Prof. Sambataro, poi, ad aggiungere come negli Stati Uniti questa pratica sia molto più consolidata, tanto che “nel processo di accreditamento del medico esiste questo 'clinical skill' e quindi nella prova clinica pratica si testa anche la comunicazione camice bianco-paziente. È parte dell'esame”.

C’è un netto dislivello percettivo tra quanto ritengono di fare i medici e quanto avvertono i pazienti. Già in uno studio di 15 anni fa il 75% dei chirurghi ortopedici statunitensi dichiararono di aver avuto un buon feeling con i pazienti; di contro, soltanto il 21% dei loro pazienti riferirono di aver raggiunto un sufficiente livello di empatia.

Sono numeri che debbono essere migliorati attraverso training, feedback dei pazienti e diversi altri strumenti capaci di trasmettere le basi neurobiologiche dell’empatia, così da far percepire l’importanza di migliorare la relazione medico-paziente[2].

Il primo passo consiste sempre nell’ascolto, base di ogni rapporto umano ed elemento imprescindibile nel rapporto medico-paziente. Proprio per questo motivo condivido fortemente l’appello per un test di accesso alla Facoltà di Medicina e Chirurgia incentrato sulla capacità empatica dello studente, negli Stati Uniti ma anche in Italia e in tutti gli altri paesi.

Ignazio Marino
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