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Da Philadelphia, dove dal 2016 è tornato a occuparsi di trapianti alla Thomas Jefferson University, parla il chirurgo, ex presidente della commissione Sanità del Senato ed ex sindaco di Roma, Ignazio Marino: “Un Paese che non investe in ricerca, che non premia i propri giovani migliori, che non li sostiene e che li lascia partire dopo averli formati è un Paese che svende il proprio futuro”.

di Lorenzo Sommella
(da panoramasanita.it del 03/05/2021)

Nel 2020 nessuno nel mondo industrializzato era preparato ad affrontare decessi così numerosi legati a una malattia infettiva. A livello globale abbiamo dovuto confrontarci con le stesse paure, incertezze, la stessa impreparazione che ci ha colpito l’ultima volta cento anni fa, coinvolgendo tutti i continenti e tutti i ceti sociali”. Così Ignazio Marino, dal 2016 Executive Vice President della Thomas Jefferson University di Philadelphia, in questo colloquio a tutto campo. Dal suo osservatorio privilegiato, Marino ha accettato di dare a Panorama della Sanità il suo punto di vista su tutto quello che sta avvenendo nel nostro Paese e negli Usa evidenziando numerose differenze.

Qual è la situazione attuale negli Stati Uniti? E qual è l’atteggiamento degli americani rispetto alla pandemia e alla campagna vaccinale? Puoi evidenziare le diversità tra l’approccio alla pandemia tra Usa e Italia?

Negli Usa, abbiamo vissuto i mesi più drammatici del 2020 fra aprile e giugno, un po’ in ritardo rispetto all’Europa, quindi anche all’Italia. Alla mia università, la Thomas Jefferson University di Philadelphia, nei suoi quattordici ospedali, abbiamo operato due scelte strategiche, che io ho fortemente sostenuto: accettare ogni paziente, anche quelli trasferiti da altri Stati (assistendo, ad oggi, oltre ventimila persone colpite dal Covid-19), e non licenziare nessuno, nonostante la consistente perdita economica legata alla pandemia (su un bilancio di 6 miliardi di dollari, nel 2020 abbiamo perso 290 milioni di dollari). Il tempo è un fattore determinante per affrontare una malattia come il Covid-19. A Jefferson abbiamo avuto modo di acquisire maggiori informazioni sul virus e la gestione è stata più efficace. Faccio un esempio.

Quando la pandemia ha coinvolto la Pennsylvania, lo Stato dove risiedo e lavoro, mi sono confrontato con gli specialisti italiani che avevano trattato i primi pazienti Covid in Italia. Attraverso una serie di videoconferenze con il prof. Raffaele Bruno dell’Università di Pavia, abbiamo appreso che spesso il decesso non era causato dalla polmonite, ma dalla coagulazione intravascolare disseminata che si poteva prevenire con la somministrazione di eparina. Grazie a questo dato scientifico abbiamo immediatamente inserito questo farmaco nei nostri protocolli Covid. L’Italia, fatalmente colpita in modo così drammatico, è stata all’inizio della pandemia un modello esemplare di gestione sanitaria. Tuttavia, con il trascorrere dei mesi, certe misure sono state allentate incautamente, lasciando maggiore spazio ai decisori politici piuttosto che agli esperti di malattie infettive. Inoltre, i contratti dei ventisette Paesi dell’Unione europea con l’industria farmaceutica sono stati firmati con ritardo e con gravi lacune. Lacune che a livello organizzativo e gestionale oggi rendono la campagna vaccinale troppo lenta. Gli Usa, al contrario, hanno affrontato male le prime fasi della pandemia, a causa del negazionismo del presidente Trump, ma hanno poi recuperato rapidamente e ad oggi più della metà della popolazione è stata vaccinata, mentre l’Italia non ha vaccinato neanche un quinto dei cittadini.

Leggi l’intervista integrale di Lorenzo Sommella* a Ignazio Marino su PANORAMA DELLA SANITÀ n.5 maggio 2021

*Direttore Sanitario Policlinico Universitario Campus Bio-Medico di Roma

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