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Le criticità nell’applicare il testamento biologico

Ho lavorato molti anni per far sì che anche l’Italia avesse una legge sul testamento biologico. Nel 2006 scrissi una legge per introdurlo in Italia, nel dicembre 2008 lanciai un appello online proprio su questo tema, e finalmente, dopo anni di discussioni e ostruzionismo, il 14 dicembre 2017, un anno fa, la legge sul testamento biologico fu approvata dal Senato.

Ho scritto tanto sull’importanza del poter dichiarare le disposizioni anticipate di trattamento (DAT) e ci sono stati tanti episodi nella mia vita di medico che mi hanno convinto della necessità di avere regole che siano di aiuto quando le implicazioni etiche sono complesse, come nei casi in cui si deve decidere se interrompere o meno le terapie.

Negli Stati Uniti interrompere le terapie quando non esiste una ragionevole speranza di riportare il paziente a una condizione di vita accettabile era già dagli anni 90 una prassi negli ospedali codificata da leggi e regole precise.

Nel mio lavoro di chirurgo dei trapianti ho lavorato ogni giorno a contatto pazienti in fin di vita, e mi è capitato spesso di trovarmi di fronte al dilemma se interrompere alcune delle terapie che, grazie agli enormi progressi tecnologici di cui godiamo, permettono di mantenere in vita un essere umano destinato altrimenti a morire. Ci sono stati casi in cui il paziente ha dato indicazioni precise circa le sue volontà, e altri in cui la decisione è stata presa insieme ai familiari e al comitato etico dell’ospedale.

È sempre molto difficile dover prendere una decisione quando chi si trova in fin di vita non è più vigile e quindi non può decidere, anche se esiste un suo testamento biologico. La criticità è di chi deve far applicare il testamento, che dovrebbe essere una persona che ha parlato molto e anche di recente con chi sta per morire e che conosce bene le sue ultime volontà.

Non dimenticherò mai un mio paziente trapiantato di fegato a cui furono interrotte le cure per assecondare i dettagli specificati nel suo testamento biologico. Era un veterano del Vietnam di cinquant’anni, con il fegato ormai irrimediabilmente danneggiato a causa dell’epatite B contratta in guerra con una trasfusione. Nonostante la malattia fosse in fase avanzata, le sue condizioni generali erano relativamente buone. Eppure una volta eseguito il trapianto il paziente peggiorò al punto che, dopo alcuni giorni di terapia intensiva, la sua funzionalità renale si bloccò e fu necessario ricorrere alla dialisi. Nonostante le gravi complicanze sapevo che ce l’avrebbe fatta, avevo l’esperienza e le conoscenze per capirlo. Sapevo che si trattava di conseguenze dovute alla terapia antirigetto e che, modificando farmaci e dosaggi, nel giro di qualche giorno il paziente si sarebbe risvegliato, poco alla volta i reni avrebbero ricominciato a funzionare e tutto sarebbe rientrato nella norma.

Invece la famiglia, arrivata in fretta dal Texas, non ci credeva. E nonostante le mie accorate raccomandazioni, rivolte in particolare al fratello indicato nel testamento biologico del paziente come suo fiduciario, insistette affinché venissero rispettate le dettagliate volontà: interrompere le terapie e l’utilizzo di qualsiasi supporto vitale, compreso il respiratore artificiale, se nel giro di settantadue ore non fossero sopravvenuti chiari segni di miglioramento. La discussione con i familiari avvenne senza conflitti ma fu carica di tensione, le nostre posizioni erano opposte e non ammettevano compromessi: «Mi dispiace – mi disse il fratello del paziente al termine del colloquio – ma io sono qui perché ho fatto una promessa e intendo rispettare quello che è scritto nel testamento biologico». Così alla fine, di fronte alle insistenze dei familiari e del comitato etico dell’ospedale che condivise le loro motivazioni, dovetti fare un passo indietro e accettare che venisse staccata la spina.

Tre mesi più tardi ricevetti una lettera: il fratello del paziente mi ringraziava per il mio sincero coinvolgimento in quella drammatica situazione ma ribadiva le motivazioni che lo avevano spinto a tanta rigidità. Forse sentiva il bisogno di ricevere un gesto di consenso per sentirsi in pace con la propria coscienza. Riscrissi molte volte la mia risposta prima di spedirla. Non volevo esasperare il malessere di quell’uomo insistendo sulle reali possibilità di sopravvivenza che il fratello avrebbe avuto e che egli aveva contribuito a negare, ma non riuscivo a rassegnarmi a quanto era accaduto. Anche io avevo sbagliato e per questo non mi sentivo con la coscienza a posto.

Prima dell’intervento, infatti, avrei dovuto parlare di più con il paziente, spiegargli con chiarezza i rischi a cui andava incontro e chiedergli, una volta di più, di valutare le indicazioni contenute nel suo testamento biologico. Se quel colloquio fosse avvenuto avrei potuto riferirlo al fratello e al comitato etico dell’ospedale e forse le cose sarebbero andate diversamente.

Alla fine scrissi proprio questo e nel chiudere la lettera nella busta promisi a me stesso che da quel momento in poi, testamento biologico o meno, avrei approfondito con maggiore chiarezza, con ogni singolo paziente, tutti i rischi di un percorso clinico che a volte può celare insidie inaspettate.

Ignazio Marino

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